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Esperienza digitale e Sé Virtuale

by Salvatore Blanco

Racconta Socrate nel Fedro di Platone che Theuth, una divinità egizia, si recò dal re Thamù per mostrargli le sue ultime invenzioni, tra cui i grammata, ossia le lettere dell’alfabeto, la scrittura.

Per Theuth, grazie alla scrittura, gli egizi sarebbero stati più sapienti e la loro memoria sarebbe stata più forte; essa era, infatti, il rimedio per la sapienza e la memoria:

“Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza” (Platone, Fedro).

Ma Thamù non era dello stesso parere e, frenando l’entusiasmo di Theuth, sostenne che in realtà, a causa della scrittura, gli uomini sarebbero stati non sapienti, ma saccenti. La prima conseguenza dell’abbandono dell’oralità a favore della scrittura sarebbe stata non un rafforzamento, ma un impoverimento della memoria:

“O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà l’effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno; perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei e non dal di dentro e da se medesimi. Perciò, tu non hai trovato il farmaco della memoria e del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità; infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti” (Platone, Fedro).

La polemica di Platone nei confronti della scrittura, testimoniata anche altrove, è lo specchio di quei tempi: l’oralità pura dell’età arcaica stava ormai lasciando spazio all’auralità, ossia alla compresenza di oralità e scrittura, e la reazione di chi era ancorato all’oralità non poteva che essere di diffidenza. Platone, come Socrate, considerava l’apprendimento come uno scambio interpersonale di conoscenze. Più avanti, sempre nel Fedro, Socrate dirà che un libro è come una statua: se interrogato non risponde. Eppure egli ha lasciato molti scritti, a differenza di Socrate. Ma non è necessario pensare ad una incongruenza nel pensiero platonico. Nel Fedro, semplicemente, Platone prende atto della rivoluzione rappresentata dall’affermarsi della scrittura e mette in luce i limiti del mezzo grafico di contro alla dialettica.

Un dibattito simile, specchio dei nostri tempi, riguarda il fatto che negli ultimi trent’anni la rivoluzione digitale ha prodotto una vera e propria “trasformazione antropo-epsistemologica” che sembra configurare l’emergere di una nuova forma di intelligenza umana, l’intelligenza digitale, e l’affiorare di un nuovo Sé: il Sé virtuale. Queste nuove forme esperienziali sono nate dagli effetti combinati dell’affermarsi della rivoluzione digitale e dell’adattamento proattivo a questi cambiamenti da parte della capacità cognitiva della specie umana; in particolare, i protagonisti di questa “mutazione antropo-epsistemologica” sono i “nativi digitali”, i bambini e gli adolescenti nati a partire dalla fine degli anni Novanta.

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