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Disturbi dissociativi: trauma e psicoterapia

Etiologia, diagnosi e psicoterapia dei disturbi dissociativi

disturbi dissociativi sono caratterizzati da uno sconvolgimento e/o discontinuità nella normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emozione, percezione, rappresentazione del corpo e comportamento. I sintomi dissociativi possono potenzialmente compromettere ogni area del funzionamento psicologico e sono vissuti come una intrusione nella consapevolezza e nel comportamento, con perdita di continuità nell’esperienza soggettiva (sintomi positivi) e/o impossibilità di accedere alle informazioni o controllare le funzioni mentali che normalmente sono facilmente suscettibili di accesso o controllo (sintomi negativi).

Comprendono:

  • il disturbo dissociativo di personalità;

  • l’amnesia dissociativa;

  • il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione;

  • il disturbo dissociativo non specificato.

Si ipotizza che l’attaccamento disorganizzato costituisca l’esperienza primaria che determina la predisposizione alla dissociazione e quindi a modelli cognitivi multipli del sè, con una sensazione di minaccia costante al senso di continuità, unità ed identità della coscienza, che caratterizza in genere lo sviluppo della personalità.

Nel DSM-5 i disturbi dissociativi sono posti accanto ai disturbi da Trauma, il che riflette la stretta relazione tra queste classi diagnostiche. I disturbi dissociativi, infatti, sono frequentemente successivi a traumi e molti dei sintomi, tra l’imbarazzo e la confusione o il desiderio per nasconderli, sono influenzati dalla vicinanza al trauma.

Disturbo Dissociativo dell’Identità

Che cos’è?

Il disturbo dissociativo dell’identità si caratterizza per la presenza di due o più identità o stati di personalità distinti (ciascuno con i suoi modi di percepire, relazionarsi, e pensare nei confronti di se stesso e dell’ambiente). Almeno due di queste identità o stati di personalità assumono in modo ricorrente il controllo del comportamento della persona e ognuna di esse, quando presente, non ha assolutamente coscienza dell’altra.

Sintomo caratterizzante il disturbo dissociativo dell’identità è l’amnesia dissociativa, che si riferisce all’incapacità di ricordare importanti informazioni personali, e/o eventi traumatici, non riconducibile per estensione ad una banale tendenza alla dimenticanza.

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altri settori importanti del funzionamento e possono essere rilevati dall’individuo stesso o osservati da altre persone (APA, 2013).

L’alterazione non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. black-out o comportamenti caotici in corso di intossicazione alcoolica) o ad una condizione medica generale (per es. epilessia).

Il disturbo dissociativo dell’identità è grave e cronico e può condurre a disabilità e invalidità. È spesso associato a depressione e disturbo borderline di personalità e presenta un’elevata incidenza di tentativi di suicidio.

Come si manifesta?

La caratteristica distintiva del disturbo dissociativo dell’identità è la presenza di due o più distinti stati di personalità o di un’esperienza di possesso. Quando gli stati di personalità alternativi non vengono osservati direttamente, la malattia può essere identificata da due gruppi di sintomi:

  • alterazioni improvvise o discontinuità nel senso di sé e del senso di agency che possono influenzare qualsiasi aspetto del funzionamento di un individuo. Gli individui possono comunicare la sensazione di essere improvvisamente diventati osservatori di loro stessi, o la percezione di voci. Possono emergere improvvisamente forti emozioni, impulsi, e anche discorsi o altre azioni, senza un senso di personale controllo (senso di agency). Queste emozioni e impulsi sono spesso segnalati come egodistonici e sconcertanti. Alterazioni nel senso di sé e la perdita di agency personale possono essere accompagnati da una sensazione che gli atteggiamenti, le emozioni e i comportamenti, o anche il proprio corpo, sono “non mio” e/o sono “non sotto il mio controllo”;

2) amnesie dissociative ricorrenti che si manifestano come:

  • lacune nella memoria remota di eventi di vita personale (periodi dell’infanzia o dell’adolescenza, alcuni eventi della vita importanti);
  • vuoti di memoria significativi di quanto accaduto oggi, o di abilità come fare il proprio lavoro, utilizzare un computer, leggere, guidare;
  • scoperta di prove delle loro azioni e dei compiti che non ricordano di aver fatto giorni prima (trovare oggetti nelle loro borse, trovare scritti o disegni, scoprire lesioni).

Sono frequenti fughe dissociative: possono ritrovarsi improvvisamente in spiaggia, al lavoro, in un locale notturno, o da qualche parte in casa senza ricordare di come ci sono arrivati.

Come riconoscerlo?

I pazienti spesso presentano le seguenti manifestazioni sintomatologiche: sintomi di depressione, manifestazioni d’ansia (sudorazione, tachicardia, palpitazioni), fobie, attacchi di panico, sintomi fisici, disfunzioni sessuali, disturbi del comportamento alimentare e disturbi post-traumatici da stress. Sono frequenti pensieri e tentativi di suicidio, così come episodi di automutilazione. Molti soggetti hanno fatto abuso di sostanze psicoattive per un certo periodo di tempo.

In ambito clinico predominano casi di donne con disturbo dissociativo dell’identità: gli uomini possono negare i loro sintomi e le storie di traumi, e questo può portare a tassi elevati di falsa diagnosi negativa. Le donne con disturbo dissociativo dell’identità presentano più frequentemente acuti stati dissociativi (flashback, amnesia, fuga, sintomi da conversione, allucinazioni, automutilazione); gli uomini presentano più comunemente comportamenti criminali o violenti.

Gli individui con disturbo dissociativo dell’identità possono anche segnalare allucinazioni visive, tattili, olfattive, gustative, e somatiche, che di solito sono legate a fattori post-traumatici e dissociativi. Avvertono questi sintomi come causati da un’identità alternativa (“mi sento come qualcun altro che vuole piangere con i miei occhi”).

L’alternarsi continuo tra una o più personalità può condurre ad uno stile di vita caotico, non facile da differenziare rispetto a quello che caratterizza il disturbo borderline di personalità. La diagnosi differenziale è resa ulteriormente difficile dalla presenza in entrambi i disturbi di sintomi somatoformi transitori e di periodi di disorganizzazione del pensiero e della percezione, oltre che di eventi traumatici subiti in età infantile. Il clinico può basarsi sulla ricerca accurata di lacune mnestiche e di stati alterati di coscienza: più sono frequenti ed intensi nel quadro clinico più è giustificata la diagnosi di disturbo dissociativo di identità.

 Cause

Il disturbo dissociativo dell’identità è quasi universalmente associato a una storia antecedente di trauma significativo, il più delle volte verificatosi durante la prima infanzia.

Molti esperti propongono un modello evolutivo e ipotizzano che lo sviluppo delle identità sia il risultato dell’incapacità di molti bambini traumatizzati a sviluppare un senso unitario di sé, in particolare quando la prima esposizione traumatica avviene prima dei cinque anni. Tali difficoltà avvengono spesso nel contesto della relazione o attaccamento disorganizzato che può anticipare e impostare lo sviluppo di strategie di coping dissociative.

 Conseguenze

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altri settori importanti del funzionamento.

Trattamento

Il trattamento raccomandato per la cura dei Disturbi Dissociativi è la psicoterapia cognitivo comportamentale, con lo scopo principale di ricondurre il paziente verso un migliore funzionamento integrato. Il terapeuta promuove l’idea che tutte le identità alternative rappresentino tentativi di adattamento per far fronte o padroneggiare le difficoltà incontrate dal paziente, e agisce aiutando le identità a conoscersi l’una con l’altra, accettandosi come parti legittime del sé e negoziando per risolvere i loro conflitti.

Oltre alla psicoterapia individuale, i pazienti possono beneficiare d’interventi specifici come la terapia dialettico-comportamentale DBT (Linehan, 1993a, 1993b), le terapie di gruppo.

La terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan è un trattamento ad orientamento cognitivo-comportamentale integrato che prevede il potenziamento di quelle abilità in cui il paziente risulta carente, in particolare la regolazione delle sue intense emozioni negative, e sembra essere particolarmente indicato per le persone che presentano atti autolesivi e suicidari. Il fondamento del trattamento è aiutare i pazienti a ridurre al minimo i comportamenti che sono pericolosi per sé o per gli altri o che li rendono vulnerabili alle vittimizzazioni da parte di altri. Tali condotte includono: comportamenti suicidari e parasuicidari, abuso di sostanze e alcool, relazioni violente, disordini dell’alimentazione, violenza o aggressioni e comportamenti ad alto rischio.

In alcuni casi, per un tempo limitato, ad una terapia individuale si può affiancare la psicoterapia di gruppo al fine di aiutare il paziente a sviluppare competenze sul trauma, sulla dissociazione, assistere lo sviluppo di specifiche abilità (ad esempio, strategie di coping, abilità sociali, e la gestione dei sintomi), e permettere di capire che non è il solo ad avere a che fare con i sintomi dissociativi e le memorie traumatiche. I gruppi forniscono sostegno, la possibilità di focalizzarsi sullo sviluppo delle funzioni interpersonali e rinforzare gli obiettivi della terapia individuale. È fondamentale che questi gruppi siano a tempo limitato, ben strutturati e dichiaratamente focalizzati.

La farmacoterapia non rappresenta un trattamento di elezione in quanto non sono disponibili farmaci in grado di agire elettivamente sui sintomi dissociativi. Il ricorso alla terapia farmacologica è giustificato per ridurre la sintomatologia ansioso-depressiva, l’irritabilità, l’impulsività, l’insonnia, con il fine di raggiungere una stabilizzazione emotiva. Tra i più utilizzati: farmaci antidepressivi SSRI, più spesso utilizzati per trattare i sintomi depressivi e/o sintomi del disturbo post-traumatico da stress; gli ansiolitici utilizzati principalmente come approccio a breve termine per trattare l’ansia; i neurolettici o i farmaci antipsicotici, in particolare i nuovi antipsicotici atipici sono stati usati in dosi relativamente basse per trattare con successo l’iperattivazione, la disorganizzazione del pensiero, i sintomi intrusivi del PTSD, così come l’ansia cronica, l’insonnia e l’irritabilità.

Possono rendersi necessari ricoveri psichiatrici per aiutare i pazienti in periodi particolarmente difficili.

 Il trattamento cognitivo-comportamentale

La terapia cognitivo-comportamentale risulta il trattamento privilegiato per aiutare i pazienti ad esplorare e modificare il sistema di credenze disfunzionali basate sul trauma subito ed a padroneggiare le esperienze stressanti e i comportamenti impulsivi. Le tecniche cognitivo-comportamentali sono infatti particolarmente utili per il controllo di alcuni sintomi, quali: la gestione delle attivazioni ansiose e delle crisi di ira, la ristrutturazione dei pensieri negativi, il miglioramento della comunicazione interpersonale.

Obiettivo del trattamento è un funzionamento maggiormente integrato, attraverso il lavoro sui processi mentali dissociati. Nell’ottica della terapia cognitiva-evoluzionista, si concorda ormai nell’affermare che i disturbi correlati a traumi complessi, tra cui i disturbi dissociativi, sono trattati più appropriatamente in sequenze di fasi. La struttura più comune nel campo è costituita da tre fasi.

Nella prima fase la priorità è la sicurezza, la stabilizzazione ed il rafforzamento del paziente, in vista del lavoro di elaborazione del materiale traumatico e di gestione delle personalità problematiche. Gli obiettivi includono il mantenimento della sicurezza personale, il controllo dei sintomi, la modulazione degli affetti, la tolleranza dello stress, il miglioramento delle funzioni vitali basilari e lo sviluppo delle capacità relazionali. Si ricorre spesso alla psicoeducazione, consigliando al paziente letture specifiche, fornendo informazioni e spiegazioni con lo scopo di “normalizzare” la sua esperienza. La relazione terapeutica diventa il terreno di esperienze emozionali correttive del sistema di attaccamento e di esperienza di nuove forme collaborative e paritetiche di relazione interpersonale.

Nella seconda fase il paziente viene aiutato a elaborare gli episodi dolorosi del suo passato, e a sostenere il dolore per le perdite e le altre conseguenze negative del trauma. Il lavoro di questa fase è ricordare, tollerare, elaborare ed integrare gli intensi eventi passati pianificando strategie per mantenere il controllo sul materiale traumatico emergente. L’esplorazione e l’integrazione dei ricordi traumatici può essere definita come una forma di terapia di esposizione che permette al paziente di trasformare i ricordi traumatici al fine di integrare le personalità o ottenere una interazione tra esse. I processi della seconda fase permettono di comprendere che le esperienze traumatiche appartengono al passato, di capire il loro impatto sulla propria vita, di sviluppare una più completa e coerente storia personale e senso del sé. A tal fine vengono utilizzate: la ristrutturazione cognitiva delle esperienze traumatiche e il riconoscimento delle risposte di adattamento che il paziente ha avuto durante quelle esperienze con il fine di contrastare la colpa irrazionale e la vergogna.

Nella terza fase i pazienti iniziano a fare esperienza di un senso del sé stabile e solido e di nuove sensazioni su come relazionarsi con gli altri e con il mondo esterno. Acquistano un senso di coerenza della propria storia che risulta essere anche collegato con i problemi che devono affrontare nel presente, iniziano a distogliere l’attenzione dal loro passato traumatico, direzionando la propria energia sul vivere il presente e sviluppare prospettive future.

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